Nel dibattito pubblico ora è di moda la questione della denatalità. Naturalmente, per non infastidire i “datori di lavoro” non si dice una sola parola sulla pressione a non far figli, esercitata sulle donne, al momento dell’assunzione. Che è invece una delle ragioni sociali della rinuncia alla maternità.
In Italia i figli si fanno sempre meno e sempre più tardi, quello della denatalità è uno degli argomenti che più tiene banco, nei dibattiti pubblici. Apparentemente sembra anche essere una delle maggiori preoccupazioni della presidente del consiglio (meglio conosciuta come “Giorgia, donna, madre , cristiana”), insomma la Meloni, che infatti, in occasione dei lavori della terza edizione degli Stati Generali della Natalità , in accordo con il capo dei cattolici ed un gruppo di esponenti del mondo economico ( Enel, Cassa depositi e Prestiti, Tim, Danone, Allianz e Invitalia ), ha concluso il convegno, nel chiacchiericcio inconcludente, intriso di demagogia e ipocrisia, producendo solo vaghe e fumose promesse. Uno degli slogan più acclamati del convegno, è stato quello del presidente di Tim (Salvatore Rossi): “ …Finalmente si sta facendo strada l’idea che una donna faccia figli con fiducia e tranquillità, senza ostacoli…”. Chissà a quale paese si riferiva!
Che la rinuncia alla maternità in Italia, abbia radici sociali più che comprovate è ovvio. La mancanza di politiche familiari e di servizi per l’infanzia, adeguati a sostenere la combinazione maternità-lavoro, sono determinanti, così come la precarietà lavorativa e i salari bassi. C’è però un altro elemento altrettanto importante, di cui si parla poco, che contribuisce in maniera non indifferente al calo della natalità: la pressione che viene esercitata direttamente sulle donne a non fare figli, al momento dell’assunzione. In Italia nel 2022, al 28% delle donne durante un colloquio di lavoro è stato chiesto se avesse intenzione di avere figli (dati Public Affairs di IPSOS). Non è raro, che tra le domande poste nei questionari online o nei colloqui in presenza, venga posta la domanda: “Vuoi avere figli?” Inutile sottolineare che nonostante sia posta anche ai candidati uomini, la risposta assume una rilevanza diversa per quello che concerne le donne. Se la candidata dichiara di volere figli verrà percepita come una lavoratrice meno affidabile che prima o poi verrà meno ai propri impegni a causa della gravidanza o maternità. Spesso la richiesta di rinunciare alla maternità per qualche anno è esplicita. Una pratica altrettanto diffusa, è di far firmare le dimissioni in bianco, prima dell’assunzione. Sarà poi cura del “datore di lavoro” porre la data delle dimissioni, quando lo riterrà più opportuno, a suo beneficio, e questo sicuramente avverrà a fronte di una malattia, di un diverbio, ma ovviamente anche in caso di gravidanza. Alla faccia degli strombazzamenti degli Stati Generali dove i “bravi “e “buoni” imprenditori definiscono le donne “un vero capitale umano”. I dati e la realtà che viviamo noi ci dimostrano, che per i padroni la maternità e la gravidanza sono considerate forme di assenteismo ingiustificabile, dannose per l’azienda. La maternità è considerata un intralcio alla produttività, e se possono fanno a meno delle donne. Una buona scusa per non rinnovare un contratto. 5 milioni di donne rinunciano alla maternità per non perdere il lavoro o per non passare al part-time (dati ISTAT). Le donne in Italia rappresentano il 42% della forza lavoro, solo il 46% ha un lavoro, e nel 2018 le neo mamme dimissionarie sono aumentate del 25% (dati ISTAT). Le donne che fanno i figli sono considerate un costo e vengono penalizzate.
Praticamente non è cambiato niente dalla visione che aveva l’imprenditore Franco Monzino (il padrone della Standa, 1931). A quei tempi per lavorare in Standa venivano richieste: “bella presenza, cortesia di modi”, e soprattutto bisognava esse giovani e nubili. Anche loro dovevano dare “garanzia”che non avrebbero fatto figli, e non appena manifestavano l’intenzione di sposarsi o peggio di restare incinte, “venivano cortesemente invitate a dimettersi”. Fu solo a metà e alla fine degli anni settanta, che i sindacati sotto la spinta delle lotte e ribellioni delle donne, ottennero le tutele minime che impedivano i licenziamenti arbitrari. Eppure ancora oggi, nonostante le leggi, che non mancano mai (art 27 del codice delle pari opportunità), è prassi per molte donne compilare questionari di lavoro, che presentano domande personali, soprattutto dedicate a capire, se si hanno o se si vogliono avere figli. Non è raro che questo accada nelle Cooperative dei servizi, quelli dedicati alla cura della persona o alle pulizie, nel comparto del commercio. Spesso la prima scrematura avviene rispondendo ai questionari dei centri per l’impiego, che si prestano meschinamente a fare da filtro così da non far perdere tempo ai “datori di lavoro”. Nelle mani delle donne che compilano i questionari non rimane mai niente, che riesca a dimostrare la discriminazione che hanno subito. Ed è ancora più frustante l’aiuto che ricevono dai sindacati, che invece di dargli tutto il sostegno di cui necessitano per denunciare gli abusi, si limitano a dare consigli su come riuscire ad eludere in maniera elegante le domande “inopportune”, o per meglio dire” illegali,” senza ferire troppo la suscettibilità di chi le “impone”. In queste condizioni è molto difficile dimostrare di aver subito una condotta discriminatoria. Dai tempi della Standa, i padroni hanno affinato le loro armi di “persuasione”. Il capitalismo si basa su una forma subdola di sfruttamento. Così come l’operaio è “formalmente libero di vendere la propria forza lavoro a un padrone” (Marx), «le donne non sono “obbligate” a sottostare ai ricatti che il mercato del lavoro impone, possono “formalmente” scegliere “liberamente” se e quando avere figli, non rimane traccia evidente del ricatto e delle discriminazioni che subiscono in tal senso» (Il corpo delle donne tra scelte e mercato, Tiscali Cultura). Impossibile non chiedersi se simili scelte possono ritenersi volontarie. Sembra piuttosto la forma capitalista di sfruttamento basata sulla “libertà” di chi non ha alternative. Portare avanti una gravidanza e mantenere il proprio lavoro sembra un’impresa quasi impossibile. Una donna su quattro perderà il lavoro dopo la maternità. E se non è licenziata sarà demansionata.
Ne è una prova Elisa, una commessa di un negozio di abbigliamento all’interno di un centro commerciale, tra Firenze e Prato. In possesso di un contratto a tempo indeterminato, rimase in cinta. Da quel momento il suo datore di lavoro gli dichiarò “guerra”. È emblematica una sua affermazione, durante un’aggressione verbale nei confronti di Elisa: “Ti ho assunto perché pensavo fossi sterile!” Elisa armata di rabbia e determinazione, ha impiegato 12 anni per ottenere un risarcimento per gli abusi subiti, 10mila euro (a fronte dei 50mila richiesti). Non ha avuto il sostegno del sindacato a cui si era rivolta, e si è dovuta pagare lei gli avvocati. Nonostante si sia poi licenziata, perché sopraffatta dalla stanchezza e dalla paura di lavorare in un ambiente così ostile, si è fatta carico di rendere pubblica la sua battaglia, e di esortare le altre lavoratrici nelle stesse condizioni, a fare squadra e darsi reciproco aiuto, perché l’isolamento, in questi settori di lavoro è il peggior nemico.
Nel mese di marzo è anche stata depositata la sentenza del Tribunale del lavoro di Roma, che ha condannato l’ITA (la compagnia nata dalle ceneri dell’Alitalia), perché discrimina le donne in gravidanza e puerperio, escludendole dalle selezioni come assistenti di volo, dando ragione a due ricorrenti. Questa prima sentenza ha dato il via ad altre denunce collettive. La maternità deve essere una libera scelta, non può essere imposta ma neanche negata. È tipico del sistema capitalistico, che vorrebbe le donne perennemente a disposizione, come un “esercito industriale di riserva”, lavoratrici “elastiche”, facili da rimandare a casa, senza rischiare di creare troppe tensioni sociali, perché più ricattabili, e perché spesso impiegate in lavori frammentati sul territorio. Ma anche dalle piccole realtà possono partire i segnali di ribellione.
S.O.
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