Art.1 L’Italia è una Repubblica fondata sull’omicidio degli operai.

Satman Singh. Il fuoco e solo il fuoco può cancellare una barbarie come questa. Il resto è solo chiacchiera e opportunismo politico.
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Satman Singh. Il fuoco e solo il fuoco può cancellare una barbarie come questa. Il resto è solo chiacchiera e opportunismo politico.

Le nostre braccia di operai valgono quanto una cassetta di frutta. Per raccoglierla ci pagano 3 euro l’ora, senza contratti, senza documenti, vivendo in qualche baracca. Se mentre lavoriamo, segnati dalla fatica e dal sole, finiamo sotto un macchinario, come si fa per la frutta marcia, veniamo gettati via, con le braccia insieme alla frutta. Con il braccio appoggiato su una cassetta di frutta. Perché il lavoro sotto padrone è disseminato di segni e indizi visivi, che spiegano in cosa consiste la ferocia di questa condizione materiale più di ogni altra cosa.
Satnam Singh era un bracciante agricolo di origini indiane di 31 anni. Lavorava a nero per l’azienda agricola Lovato in provincia di Latina. Nella giornata di lunedì il suo braccio viene tranciato dal rullo avvolgiplastica installato sul trattore che finisce a schiacciargli anche le gambe. Sua moglie che lavora presso la stessa ditta chiede che venga soccorso. Il padrone decide di caricarli entrambi su un furgone e li scarica davanti alla loro abitazione: Satnam, sua moglie, e il braccio amputato in una cassetta della frutta.
Queste parole ci scorrono davanti come tante altre parole e immagini. Come uno dei tanti fatti di cronaca. Come uno dei tanti “incidenti sul lavoro”, come li chiamano per occultare il sistema omicida che li genera. Incidenti a cui siamo ormai talmente abituati che li derubrichiamo come una notizia tra le altre. La solita notizia del giorno. Ma queste non sono come altre parole e immagini.
Sono quelle che stanno dietro un lavoratore ucciso. Un uomo che faceva una fatica bestiale, che sta sui campi con la schiena ricurva dietro a un trattore per 14 ore e che finisce con il braccio sotto un rullo e con le gambe sotto il trattore. Un uomo con un braccio mutilato e le gambe spezzate riverso su un terreno e nessuna chiamata di soccorso. Caricato su un furgone insieme alla moglie. Scaricato davanti all’ingresso di casa. Con il braccio che il suo padrone depone in una cassetta della frutta prima di dileguarsi. Noi operai in queste cassette ci mettiamo la frutta, loro, i padroni, le nostre braccia mutilate.
Cosa, se non la guerra, è più simile a queste immagini? Uomini mutilati, lasciati per strada, che muoiono dissanguati, senza soccorso, senza aiuto. È la guerra che noi operai viviamo ogni giorno contro i nostri padroni. Che ci sfruttano, ci tengono in condizioni disumane, ci spremono fino ad ucciderci, poi ci scaricano, ci buttano via. Noi e i nostri corpi lacerati. Solo anonimi strumenti del loro arricchimento. Sacrificabili, intercambiabili. Mutilato Satnam, avanti un altro. Ammazzato Satnam, avanti il prossimo.
Moriamo nei campi, nei cantieri, nelle fabbriche. Moriamo da italiani, algerini, indiani, pakistani. Moriamo con i documenti e senza. Moriamo lavorando a nero e con i contratti collettivi nazionali. Moriamo nelle fabbriche più sviluppate tecnologicamente e in campagna raccogliendo ortaggi. Moriamo con la tessera sindacale e senza. Moriamo per 3 euro all’ora e per mille euro al mese. Moriamo per lavorare, moriamo per la nostra condizione di operai, moriamo per il profitto dei padroni. Anche questa volta c’è chi si scaglierà contro “la piaga del caporalato”, chi annuncia pene severe, chi si indigna, chi fa interrogazioni parlamentari. Chi organizzerà qualche manifestazione per recapitare una lettera al prefetto. Non scriviamo queste righe per commentare le reazioni ipocrite e interessate di chi sulla nostra morte alimenta il baraccone mediatico e politico. Chi oggi parla di barbarie ma ogni giorno difende attraverso atti concreti, leggi, finanziamenti e coperture, la classe dei padroni che ci sfrutta e ci ammazza. Non lo faremo oggi.
Oggi con la morte nel cuore e gli occhi che grondano rabbia, da operai ci chiediamo come sia possibile finire triturati e mutilati senza più innescare una reazione. Quanto affidamento sulla nostra incapacità a reagire c’è dietro il gesto di un padrone che vede un operaio a terra senza più un braccio e decide di scaricarlo sulla strada? Quanto devono sentirsi protetti e impunibili? Quanto dobbiamo fargli così poca paura da permetterli di trattarci come sacchi dell’immondizia? In quanta poca considerazione ci tiene la classe politica che si permette di aprire bocca su qualcosa da fare dopo ogni nostra morte e ci riversa pure sopra l’onta di un disgustoso teatrino patetico che sappiamo già non portare a nulla? Quanto dobbiamo essere insignificanti per permettere al padrone di uscire con un’intervista accusandoci di commettere delle leggerezze? LEGGEREZZE. Lavorare a nero nei campi per 14 ore al giorno per 3 euro l’ora. LEGGEREZZE.
Quanti morti ancora dovranno piangere le nostri mogli, i nostri mariti, i nostri figli? Quante altre elezioni politiche devono passare, quante altre interviste di padroni omicidi dobbiamo subire, quali altri rappresentanti sindacali dobbiamo eleggere per avere una sollevazione? Una sollevazione operaia, per cominciare. Per dire che la nostra Vita vale. Che non siamo più disposti a morire per il pane. A Latina e in tutte le altre campagne italiane. Nelle fabbriche, nei cantieri. Più drammatica della morte di Satnam sono le ore di silenzio da parte di noi operai che la accompagneranno. Rispondiamo con una sollevazione, contro il potere dei padroni, contro il servilismo dei politici, contro l’inutilità dei sindacati. Fermiamo le nostre braccia contro chi vuole che le usiamo a suo piacimento, per i suoi profitti, a qualunque costo. Fermiamo le nostre braccia perché non finiscano più sotto la pressa di una fabbrica, sotto le macerie di un cantiere, in una cassetta della frutta. Fermiamoci e solleviamoci perché si sappia che da oggi torniamo a mettergli paura.
A.B.

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