Di fronte alle politiche securitarie del governo si fa appello alla democrazia in generale che è solo un’illusione. La forma democratica del potere dello Stato ha il compito di garantire le classi dominanti da una possibile rivolta delle classi subalterne e questa forma viene adeguata continuamente allo scopo.
Nelle ultime settimane la prima approvazione del disegno di legge sulla sicurezza – ddl 1660 – ha riaperto il dibattito tra i movimenti di lotta sulle politiche securitarie e repressive dello Stato. Si tratta di un provvedimento che, utilizzando il solito paravento della sicurezza, prende di mira il dissenso e la protesta e punta a colpire le categorie sociali più deboli come migranti, poveri, senza casa, detenuti e persone dedite alla piccola criminalità. Ma l’obbiettivo è anche quello di edificare un più robusto e articolato sistema di norme repressive contro le manifestazioni collettive che possano destare pericoli per l’ordinamento sociale vigente.
È un provvedimento in linea con le politiche adottate da tutti i governi negli ultimi decenni e per questo si inserisce perfettamente in una cornice coerente di dispositivi già in uso nella repressione del dissenso sociale. Non appare quindi come un inedito salto di qualità nella definizione degli strumenti repressivi, piuttosto come una prosecuzione delle politiche che contrastano lo sviluppo e l’organizzazione dei movimenti di protesta, che prevede un progressivo e inevitabile rafforzamento della legislazione penale.
L’acuirsi della crisi capitalistica, con gli effetti che essa produce sulle fasce più povere della popolazione, l’aumento dei prezzi, la riduzione dei salari, il crescente esubero di forza-lavoro, la difficoltà ad accedere ad alcuni diritti essenziali come le cure sanitarie, l’assenza di strumenti di sostegno economico nei periodi di disoccupazione, determina anche una spinta verso le pratiche del conflitto: dagli studenti universitari in lotta contro il caro-affitti, agli attivisti contro la “crisi climatica”, ai disoccupati organizzati, agli operai delle grandi fabbriche schiacciati tra sfruttamento e soluzioni che le aziende adoperano per la corsa al maggior profitto (cassa integrazione, tagli e chiusure).
Sebbene questi siano i destinatari finali di ogni provvedimento che mira a inasprire lo Stato di polizia, in quanto classe antagonista dello Stato borghese, la loro momentanea acquiescenza, unita all’efficace e rigido controllo che esercitano le loro organizzazioni sindacali, fa apparire ogni intervento supplementare in seno all’apparato repressivo come generico ed onnicomprensivo. Ma sappiamo che in futuro una ripresa delle loro mobilitazioni inaugurerà il corso di trattamenti specifici ancora più feroci e nel frattempo quelli esistenti costituiscono una valida azione preventiva.
La pluralità dei reati che negli anni sono stati contestati a diversi militanti e attivisti dei movimenti di lotta, da quelli più tenui a quelli che prevedono anni di carcere, come la finalità terroristica o l’associazione a delinquere, l’uso cioè sistematico della repressione poliziesca e dei dispositivi penali, di restrizione delle libertà personali, ha sempre portato, tanto i soggetti interessati a vario titolo alla discussione quanto i destinatari stessi di questi provvedimenti, alla conclusione che fosse in atto una “deriva autoritaria”, che uno Stato democratico che attraverso la sua polizia e il suo sistema penale tenta di neutralizzare qualsiasi forma di conflitto dimostra una svolta in senso autoritario, e di conseguenza, appare quasi sconcertante che in democrazia le lotte vengano processate, la protesta repressa, il disordine sociale debba trovare soluzione nell’ordine costituito per mezzo di manganellate, arresti, giudici, tribunali e condanne. Nell’allusione, che queste affermazioni contengono, ad una forma di democrazia (capitalistica) pura, vi è anche il fondamento della sua illusione.
È sempre importante evidenziare, soprattutto attraverso le pratiche del conflitto, le contraddizioni insite tra il piano formale della democrazia e quello sostanziale del potere che la classe dominante esercita utilizzando la forma politica democratica. All’avanzare di ogni conflitto sociale, la classe borghese è costretta a sconfessare gli stessi principi su cui fonda il proprio ordinamento, dimostrando che per la difesa dell’ordine costituito e della proprietà privata ci si può facilmente sbarazzare degli illusori enunciati sulle libertà personali e democratiche custoditi nei libri costituzionali, che valgono fintanto che non giunga una minaccia concreta al proprio potere. Che del resto vi sia violenza nell’esercizio di questo potere è quasi un’ovvietà. Ogni potere presuppone violenza. Ma la discrasia tra i due piani, il piano formale della democrazia fatto di regole, norme, istituzioni e ideologia, e quello su cui effettivamente le sue strutture materiali intervengono ed operano, non deve portare all’errata convinzione che vi sia un modello astratto da rivendicare, in cui è possibile far coesistere lotte contro la povertà, lo sfruttamento e la disuguaglianza e solidarietà istituzionale o mani tese da parte delle forze armate dello Stato. Esiste una pacificazione coatta quando i tumulti di una società fondata sullo sfruttamento sono messi a tacere, ma questa stessa pacificazione si disintegra e si tramuta in brutale repressione quando il termometro sociale fa registrare picchi improvvisi.
È l’occultamento della disuguaglianza socio-economica attraverso l’uguaglianza giuridica formale e l’occultamento del funzionamento di classe dello Stato capitalista attraverso le sue istituzioni apparentemente universaliste che tiene accesa l’illusione di una democrazia vera a cui tendere, che sappia bilanciare gli opposti interessi e mediare tra essi. Un occultamento che riguarda anche la relazione tra capitalista ed operaio. I proprietari di merci, compreso l’operaio che vende la sua forza-lavoro, appaiono, tutti, come uomini liberi, eguali, che scambiano equivalenti. Il lavoratore salariato è, di fatto, giuridicamente libero, cosa che lo distingue dallo schiavo e dal servo. Ma questa promessa di libertà è un’illusione, nella misura in cui nasconde la relazione di sfruttamento e dominazione di classe: l’operaio può, al limite, scegliere per quale capitalista lavorerà, ma non può scegliere se lavorerà o no per la classe capitalista.
Sarà determinante durante la ripresa delle lotte per gli stessi operai liberarsi di questi feticci democratici, di queste promesse di libertà e di uguaglianza millantate da una finta democrazia che riveste il nocciolo duro e repressivo dello Stato dei padroni. Proprio in un periodo in cui si susseguono gli annunci di chiusure di fabbriche a cui si risponde chiedendo aiuti e soluzioni dal governo, con estenuanti e inconcludenti tavoli al ministero, pianificando piani di nazionalizzazioni puntualmente disattesi, sarà cruciale per gli operai capire il vero volto di questa democrazia, il suo funzionamento, il carico di illusioni che prospera dietro di essa.
A.B.
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